“A Parma, sotto un cielo livido di nembi, in un autunno scosso dalla voce baritonale dei tuoni, riposavano i resti di un immenso spazio commerciale”.
Inizia così il romanzo “PASSATO PROSSIMO”, scritto da Riccardo Zinelli e pubblicato in prima edizione nel Maggio 2019 da Laura Capone Editore.
L’autore ci ha contattati personalmente nell’Agosto scorso, durante una serata del ciclo di proiezioni “Immagini dal mondo” presso la biblioteca di Neviani Arduini, proponendoci di illustrare fotograficamente i luoghi nei quali si dipana la narrazione.
…” Ho scelto Parma come teatro della vicenda perché, nonostante sia un piccolo capoluogo, mi ha mostrato come la storia recente abbia cambiato l’Italia”…
Sono parole di Riccardo, giovane autore classe 2000, studente universitario che vive a Parma e, nonostante la giovane età, è già risultato vincitore di vari premi letterari a livello nazionale.
A noi la proposta, per quanto inusuale, è subito parsa valida occasione per impugnare la macchina fotografica e ripercorrere, sulle orme del commissario Melegari e degli altri protagonisti, gli ambienti cittadini resi affascinanti dal clima autunnale.
Così, assieme a lui, passo dopo passo, abbiamo respirato le atmosfere lungo “…le amate strade e le borgate dove passeggiava da ragazzo, forgiate ex novo da quello spietato fabbro che è il tempo.”…
I filari di olmi salutavano il viale d’ingresso al casale, affacciato sulla rurale Vigolante a pochi chilometri dalla città, e parevano sostenere un cencio liquido con i loro rami spogli. Improvvisamente un urlo di terrore violentò i timpani. «Che succede? Rispondetemi.» «C’è un morto ammazzato sul pavimento», disse l’agente della municipale. A quell’avviso raccapricciante, il capopattuglia sussultò. Teresa e Alide, sconvolti, pensarono solo una cosa. Dovevano avvertire loro figlio. Senza bisogno di confrontarsi, chiamarono il commissario Melegari.
«Dobbiamo andare», fece Noemi. «Arrivo.» La voce di Libero Biavardi suonò spossata. Il vecchio dubitava d’avere energie per l’appuntamento con la Mobile. Però era costretto ad abbandonare la sua senilità per aiutare gli inquirenti a ricostruire le ultime ore di vita del suo Michele. L’ex geometra si perse così nel parco della Cittadella, incastonato nel cuore della città, nelle sagome irregolari delle chiome degli alberi e in quelle rettilinee dei bastioni. Annientare i propri sentimenti nel paesaggio lo aiutò a placare il dolore come se avesse preso un analgesico.
La convocazione della polizia lo aveva costretto a chiedere una mattina di permesso al lavoro. Filippo Boccia, impiegato in una filiale di una banca nel centro storico, spinse a palmo aperto la porta a vetri di un baretto lungo via della Repubblica in attesa del suo turno a deporre. La Prefettura, munifica, capeggiava la vista di cui si godeva dal locale, con i suoi due giganti marmorei armati di clava congelati nell’atto di sfoderarla.
Verso le dieci Melegari dovette prendersi una pausa. Aveva appena ascoltato le dichiarazioni dei coniugi Biavardi, sospettosi nei confronti della compagna del figlio, Gloria, ritenuta una sorta di banderuola che oscillava senza sosta nel vento delle emozioni. Il commissario, per indagare, aveva bisogno di potersi immergere in una soluzione pura del mondo di Michele. Perciò, frugando nelle tasche del burberry, Melegari estrasse le chiavi dell’autocivetta, sicuro d’avere più possibilità di fare passi avanti nel mistero fuori dal perimetro della Questura.
Tralicci della luce tenevano sospese lampadine che si spacciavano per lampioni, su fili tesi fra i due margini della via.
Mentre divagava, il commissario navigò lungo via Petrarca e borgo del Correggio per raggiungere la meta. Si trattava di una porzione di caseggiato infilata fra borgo Retto e borgo delle Colonne. Quella era la sede dell’Æmilia Immobiliare, l’agenzia presso cui lavorava Michele. Al commissario l’avevano riferito i genitori del giovane durante la deposizione e qualcosa aveva fatto sì che lo spunto stratificasse nella sua mente. Ansioso di scoperchiare un angolo della vita del Biavardi, Melegari parcheggiò la civetta e s’appropinquò alla vetrata. Era tondeggiante in alto, come certe porte del borgo, e affiancava l’ingresso all’agenzia.
Il commissario si svegliò che il sole doveva ancora sorgere. Praticamente aveva dormito quattro ore. Fino a notte inoltrata, obbligato dalla sua caparbia, era tornato in Questura a sovrintendere alla processione dei conoscenti di Michele e dei militi di Domus. Erano le cinque e mezza, un orario dove la città apparteneva ai coraggiosi pedoni che osavano sfidare la fumarola autunnale e il freddo stantio della notte. Melegari fu fra questi. Adorava il mattino presto perché lo illudeva di possedere appieno il mondo, ancora crepuscolare e appannaggio di pochi.
Arrivò davanti alla monumentale bellezza del Battistero che albeggiava. Lingue di luce piovvero addosso al livore nebbioso, facendolo sfiorire in un’acquerugiola che decantò sui caseggiati. In quel clima vaporoso, in cui già si muovevano focolai di pedoni, squillò il suo cellulare.
Sotto quel clima cupo il centro viveva da diversi giorni un’atmosfera satura di cattivi presagi. E nell’aria fosca, filtro che colorava la città in bianco e nero, fiottavano i pedoni, talmente presi dalle banalità del quotidiano da non riuscire ad alzare il velo di bugie che copriva Parma. Filippo Boccia, mentre procedeva con lo sguardo basso in borgo al Duomo, era l’ennesimo smarrito in un mare di confusione.
Nel viavai del centro si mescolavano ronde di professionisti trafficoni, pendolari fra una riunione e l’altra, picchetti di scontrosi perdigiorno, nelle loro garitte di fantasia, e anziani che pedalavano sull’acciottolato.
Costeggiata la cattedrale, Filippo s’infilò in borgo del Correggio, fiancheggiato dagli alti caseggiati puntinati di persiane a listelli. Il bancario scese lungo la viuzza finché inquadrò una targa scritta in freddi caratteri da normografo, appesa dietro ad un portone in vetro e acciaio. La scritta indicava uno studio notarile di un suo vecchio amico. Spinse la porta ed entrò.
Drappelli di foglie svernavano ai piedi degli alberi che le avevano ripudiate. Gloria Fumagalli le calpestò con lentezza, e quelle resero frusciante il suo passo. Era diretta alla villetta dei Biavardi in cerca di assoluzione. Il livore autunnale specchiava il suo stato d’animo, stingendo i colori della città con il suo freddo farlocco, che s’inseriva nelle ossa ma non purificava dai focolai d’insetti e dai virus stagnanti. E per farsi largo in quella marea di nefandezze sospese nell’aria, Gloria s’affidò al chiarore ottenebrato di un lampione pubblico, che dall’alto guardava altezzoso le persone che rientravano dal lavoro. Il pomeriggio infatti era già scappato, intimorito dalla cupidigia della sera avida di luce.
Via Genova condivideva un lato con gli oltre cinquemila metri quadrati dell’ex polo produttivo di un’azienda del vetro. Le vecchie ciminiere, dita nere contro il cielo, erano le ultime tracce dello stabilimento industriale ormai demolito. Ma solo i più anziani le ricordavano in vita. Il resto dei passanti era immune a quell’atmosfera nostalgica, e i ricordi sepolti nella fabbrica erano stati chiusi in un ossario per essere infine dimenticati. «Pensiamo al lavoro.» L’attenzione dei due della Æmilia si focalizzò sul condominio che stavano per valutare.
Filippo Boccia aspettava, rigirandosi nervoso il menù fra le dita, l’arrivo delle due prescelte per diventare socie fondatrici della sua onlus. Era una giornata uggiosa, l’ennesima di quel periodo, e le nuvole temporalesche avevano incappucciato i tetti dei caseggiati di via Farini, che apparivano come tanti monaci allampanati, mortificandone le facciate pagliericcio o marena. Un lampo azzurrognolo guizzò in fondo alla via, in mezzo alle schiere di case, quasi un ammonimento celestiale al Boccia. Ma Filippo non ci badò e si pulì le spesse lenti nel tovagliolo, volutamente orbo davanti alle implicazioni del suo progetto.
Libero sfiatò in piazza Garibaldi dallo scorcio racchiuso fra il fianco neoclassico della Cassa di Risparmio e quello rossiccio della Carisbo. La cupola bombata del palazzo del Governatore svettava fra i palazzi, e il pinnacolo della torre era immerso nelle nubi livide. La bellezza di quell’angolo di strada era nascosta, e capricciosa quanto una splendida donna, capace di farsi ammirare soltanto da chi la sa osservare nel modo giusto.
Dalla strada provenne un latrato che distrasse Maddalena. Ricacciate indietro le lacrime si sporse dalla finestra in cerca della fonte del lamento. «Ladri!» ripeté un uomo sulla trentina, accampato davanti alla sede dell’agenzia, animato da un’energia folle mentre sbandierava un foglio. Con un tuffo al cuore Maddalena si rese conto che il cartellone del manifestante era l’annuncio di vendita dell’appartamento in via Genova che aveva in carico. «Non si permetta di minacciare!» nitrì l’impiegato, che poi chiarì: «Chiamo i carabinieri.»
Il vento aveva portato in cielo un alone di tristezza che aveva adombrato i borghi, rendendoli scenari perfetti per chi avesse voluto catturare l’essenza del vuoto. In certi angoli tutto appariva abbandonato, dalle case con le persiane abbassate ai negozi sfitti, con i fogli di giornale attaccati in vetrina accanto ad un cartello sbiadito con la scritta VENDESI. Era evidente: la città s’era svuotata in cerca di un nuovo padrone, come a Ferragosto. Intristito da quella visione, Melegari fece dietrofront. Preferiva tornare alla civetta piuttosto che vedere ancora le sue amate strade scolorite dal tempo. Pareva infatti che per ogni negozio senza la sua insegna la via avesse perso tono. E se le piccole attività scomparivano, fuori dal centro fiorivano di continuo grandi magazzini. Ma com’era stato possibile?
Piazza Ghiaia era sepolta da un complicato intreccio di travi e di lastre, che avevano soffocato lo storico mercato all’aperto, da sempre protagonista della conca a lato del placido torrente Parma. Erano da poco passate le ventitré, e Libero aspettava, imbacuccato in un paltò, fra quel che restava delle panchine della piazza.
Una sagoma indefinita sbucò tale e quale ad uno spettro dalle scale del lungofiume, armata di coltello. Libero, ignaro del sicario che lento s’avvicinava, rimase seduto. Poi percepì un dolore straziante al fianco, un fruscio di carne, e il filo della lama dell’arma che lo aveva pugnalato al costato sbucò nel grigiore autunnale rischiarato appena dai lampioni. Addolorato, il vecchio si lasciò cadere bocconi in attesa del suo destino. FOTO
Il commissario si trovava per puro caso a passeggiare vicino a piazza Ghiaia. Aguzzò la vista, e, al centro della piazza, vide un corpo accasciato al suolo con un braccio abbandonato sul fianco destro. Corse quindi a perdifiato lungo le scale ingombre di cartacce, corse attraverso rivoli di plastica lasciati dai commercianti abusivi e si trovò davanti a Libero Biavardi in una pozza di sangue scuro. Il vecchio ebbe la prontezza di riconoscerlo in un impeto di lucidità. «Commissario», fiatò, poi sfarfallò le palpebre e svenne. «Tenga duro, Libero, i soccorsi sono in arrivo», sussurrò, in preda all’angoscia per un padre privato del figlio che rischiava di morire senza aver ricevuto giustizia.
Guidata dalle sue riflessioni, Teresa spostò lo sguardo sul casolare della tragedia. Torreggiava sempre oltre la vigna, accompagnato dalle altre costruzioni della vecchia corte dei Fogola. Erano più di settant’anni che nessuno ci viveva più, e i tetti a capanna mezzi crollati con le travi putrefatte ispiravano una malinconica tristezza.
La Mobile, titolare della duplice inchiesta su figlio e padre, proseguiva ad ascoltare dichiarazioni dei conoscenti dei due con la speranza d’imbattersi in un nuovo elemento utile a capire il motivo della persecuzione contro Michele e Libero. Era però, a detta di tutti in Questura, una strategia francamente discutibile.
Dopo un fugace controllo dei dintorni, l’autocivetta imboccò via D’Azeglio, infestata da una chiassosa rassegna di insegne provenienti da tutto il mondo. A negozi d’elettronica pachistani rispondevano alimentari indiani e parrucchieri cinesi in mezzo a rosticcerie turche. Solo qualche negozio storico resisteva, portabandiera del passato del quartiere, altrimenti testimoniato solo dal maestoso ospedale vecchio fatto costruire da Maria Luigia. E proprio sotto le arcate dell’ex nosocomio Melegari mollò la civetta.
Il commissario venne risputato dall’archivio di Stato che la mattina era già scaduta, però ne era valsa la pena. Fra le braccia reggeva un vistoso schedario ad anelli in cui erano state stipate le fotocopie richieste. La civetta era lì ad attenderlo. «Torniamocene in commissariato», disse a Carlos, «ma prima ho in mente una sosta.»
Ricacciate indietro le sue riflessioni, Melegari piegò verso la zona dove sapeva che avrebbe trovato la tomba di Michele Biavardi. Porse rispettosamente i fiori al defunto, come avrebbe fatto per un vecchio commilitone caduto, poi si raccolse in una vaga preghiera. Poiché non era credente, o almeno così si definiva lui stesso, Melegari stette a lungo in silenzio senza sapere cosa dire. Addirittura fu roso dal dubbio d’aver commesso un errore a passare dal cimitero. Una voce però lo distrasse.